Lavoro nero e immigrati irregolari: l’altra faccia dell’economia italiana

 “Mi sveglio alle cinque, prendo il furgone e lavoro nei campi fino al tramonto. Se mi faccio male, nessuno mi aiuta. Se parlo, rischio l’espulsione. Ma non ho alternative.” Ahmed (nome di fantasia), 29 anni, originario del Sudan, vive da tre anni in una baracca nella provincia di Foggia. È uno dei tanti “invisibili” che mandano avanti interi settori dell’economia italiana: braccianti, muratori, badanti, lavapiatti, tutti impiegati nel sommerso. Spesso immigrati irregolari, sono il volto nascosto del lavoro nero in Italia.

Ma il lavoro nero non è una novità. Secondo le stime ISTAT più recenti, in Italia oltre 3 milioni di persone lavorano senza un contratto regolare, contribuendo a un’economia sommersa che vale oltre 180 miliardi di euro all’anno. Una parte consistente di questi lavoratori è composta da cittadini stranieri, molti dei quali in condizioni di irregolarità.

Il legame tra immigrazione irregolare e lavoro nero è stretto: chi non ha documenti non può accedere al mercato del lavoro legale, ma spesso ha bisogno di lavorare per sopravvivere. Così, accetta qualsiasi condizione: paghe da fame, turni estenuanti, nessuna tutela. Per approfondire, leggi l’articolo il vero costo dell’immigrazione in Italia.

Le filiere dell’illegalità

Dall’agricoltura al settore edilizio, dalla ristorazione ai servizi alla persona, i lavoratori irregolari rappresentano spesso l’ultimo anello di filiere produttive che si reggono sull’illegalità. In agricoltura, fenomeni come il caporalato sono ancora largamente diffusi, nonostante la legge 199/2016 abbia introdotto nuove sanzioni per i datori di lavoro e i caporali.

I “padroncini” reclutano manodopera nei ghetti o nelle stazioni, offrono pochi euro all’ora e trattano i braccianti come bestiame. “Lavoriamo 12 ore al giorno per 25 euro. Se ci lamentiamo, ci dicono che possiamo andarcene: c’è sempre qualcuno pronto a prendere il nostro posto”, racconta Idrissa, maliano, arrivato in Italia attraverso la Libia.

La situazione non è molto diversa nei cantieri edili: turni notturni, nessuna protezione, pagamenti in contanti e, soprattutto, totale assenza di controlli. Spesso i lavoratori irregolari sono coinvolti in subappalti senza tracciabilità, un sistema che rende difficile risalire alle responsabilità in caso di infortunio o morte.

Le donne: tra badantato e sfruttamento

Le donne immigrate, in particolare quelle provenienti dall’Est Europa, dall’Africa o dal Sudamerica, sono spesso impiegate come colf o badanti, talvolta in condizioni borderline con la schiavitù. Molte lavorano senza contratto, vivono nelle case dei datori di lavoro e non hanno orari fissi. “Dormivo su un divano-letto in cucina, lavoravo 15 ore al giorno e non potevo uscire se non per fare la spesa”, racconta Elena, ucraina, che oggi ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. “Quando ho chiesto un giorno libero, mi hanno detto che non avevo il diritto.”

Realtà virtuose: regolarità, professionalità, integrazione

Per fortuna, non tutti i canali sono segnati dal lavoro nero: esistono realtà virtuose che puntano alla regolarità e alla qualità. Un esempio concreto a Bologna è la Cooperativa Sociale Passione e Competenza, un’agenzia di badanti e assistenza domiciliare che assume personale con regolare contratto, versa i contributi all’INPS e rende disponibili polizze assicurative ai lavoratori. In casi come questo, i lavoratori, o meglio, le lavoratrici, vengono selezionate e formate, l’assunzione avviene nel pieno della regolarità e le condizioni contrattuali sono più che dignitose.

Grazie a questo modello, i lavoratori immigrati non sono “invisibili”: possono costruire percorsi professionali, accedere a diritti e stabilità, e integrarsi nel tessuto sociale. Inoltre, dal punto di vista delle famiglie rappresenta un’alternativa trasparente al lavoro nero, fondata su fiducia, competenza e tutela reciproca.

L’ombra della criminalità organizzata

Tuttavia, in molte aree del Sud Italia il lavoro nero alimenta anche il potere della criminalità organizzata. Clan mafiosi e gruppi criminali locali gestiscono il reclutamento della manodopera, controllano i trasporti, impongono “pizzi” ai piccoli imprenditori e intimidiscono chi tenta di denunciare. Il lavoro nero diventa così uno strumento di controllo sociale, oltre che una fonte di guadagno illecito.

Un report della Direzione Investigativa Antimafia del 2023 ha evidenziato come “le mafie stiano rafforzando la propria presenza nei circuiti dell’agricoltura e dell’edilizia, approfittando della presenza di manodopera straniera vulnerabile.”

La responsabilità delle istituzioni

Le ispezioni sul lavoro sono poche. L’Ispettorato Nazionale del Lavoro soffre di una cronica carenza di organico: nel 2024, erano attivi meno di 4.000 ispettori su tutto il territorio nazionale. Le sanzioni, quando comminate, sono spesso simboliche e facilmente eludibili. Inoltre, manca una strategia nazionale coordinata che affronti il fenomeno in modo strutturale.

“Servono più controlli, ma soprattutto serve un cambiamento culturale”, afferma Marco Omizzolo, sociologo e attivista. “Fino a quando considereremo il lavoratore straniero come sacrificabile, il lavoro nero sarà visto come una necessità, non come un crimine.”

Il dibattito politico sul tema dell’immigrazione irregolare è contraddittorio. Da un lato la si denuncia; dall’altro, si chiudono gli occhi sul sistema economico che la sfrutta; “Chi assume in nero lo fa perché conviene. Pagare un lavoratore regolare costa il doppio, e il rischio di essere scoperti è minimo”, dice un imprenditore agricolo sotto anonimato.

Le proposte di legalità e integrazione

Solo favorendo l’emersione del sommerso si può contrastare efficacemente il fenomeno. Per questo motivo gli esperti chiedono politiche di ampio respiro: canali legali di ingresso, permessi di soggiorno legati non solo al lavoro, programmi di integrazione e formazione, incentivi alla regolarizzazione. C’è chi propone anche un reddito di transizione per i lavoratori irregolari che denunciano i datori di lavoro, accompagnato da un percorso verso la legalità.

E le storie di riscatto non mancano. Ahmed, dopo tre anni nei campi, è riuscito a ottenere un contratto in regola grazie all’aiuto di un sindacato locale. Oggi guida un piccolo gruppo di lavoratori regolari e aiuta altri braccianti a denunciare lo sfruttamento.

“Siamo persone, non numeri. Vogliamo solo lavorare in pace, pagare le tasse, vivere con dignità”, dice con orgoglio. Ma sa che il percorso è ancora lungo. Finché il lavoro nero sarà conveniente, e l’immigrazione irregolare sarà gestita come emergenza e non come fenomeno strutturale, l’Italia continuerà ad avere due economie: una legale, e una sommersa, costruita sul silenzio e sulla paura.